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Balthasar Burkhard, dal documento alla fotografia monumentale. A Lugano fino al 30 settembre

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di Redazione #Lugano twitter@gaiaitaliacomlo #Fotografia

 

 

Il Museo d’arte della Svizzera italiana di Lugano dedica una mostra monografica all’opera del fotografo e artista svizzero Balthasar Burkhard (Berna, 1944-2010). L’esposizione, organizzata in collaborazione con il Folkwang Museum di Essen, il FotoMuseum e la Fotostiftung di Winterthur, ripercorre l’intera carriera di Burkhard documentando tanto la sua attività di cronista della scena artistica internazionale fra gli anni Sessanta e Settanta, che le opere attraverso cui contribuì a rivoluzionare la pratica della fotografia.

La mostra Balthasar Burkhard. Dal documento alla fotografia monumentale muove dalle immagini giovanili realizzate durante l’apprendistato nel segno della fotografia di reportage e documentaria degli anni Sessanta e ripercorre poi, attraverso un’ampia selezione di scatti, il suo lavoro di cronista della scena artistica internazionale a fianco del celebre curatore Harald Szeemann. La memoria delle  esposizioni di Szeemann che hanno segnato un’epoca come “When Attitudes Become Form” alla Kunsthalle di Berna nel 1969 e “Documenta 5” del 1972, e delle installazioni e performance che le caratterizzavano, si conserva oggi grazie agli scatti di Burkhard. Pur lavorando come fotocronista Burkhard aspira a lasciare il segno come artista. Insieme all’amico e collega Markus Raetz realizza le sue prime fotografie riprodotte in grande formato su tela. I soggetti – un letto coperto da un lenzuolo gualcito, un grande foglio di carta sul pavimento, una finestra coperta da una tenda – creano un’interferenza fra l’immagine e la tela di supporto che non viene tesa, ma ricade in morbide pieghe. Nella scelta insolita della riproduzione in grande formato, così come nell’approccio concettuale, la fotografia dialoga dunque con le altre forme d’arte dell’epoca.

Fra la metà degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, Burkhard soggiorna negli Stati Uniti. Rientrato in Svizzera nel 1983 viene invitato a esporre alla Kunsthalle Basel e nel 1984, insieme a Niele Toroni, al Musée Rath di Ginevra. Nascono allestimenti in cui il corpo ingigantito fino ad assumere dimensioni monumentali si trasforma in paesaggio o elemento architettonico. Al MASI sarà possibile ammirare una serie di gambe, originariamente esposte a Basilea, che percorrono come colonne i tre lati di una sala. Verrà inoltre riproposto l’allestimento concepito per il Musée Rath, in cui l’astrazione di Toroni, caratterizzata dalla ripetizione di impronte di pennello, è messa in relazione con una serie di fotografie di grande formato di Burkhard. La fotografia si emancipa dunque dalla dimensione tradizionale, dal formato maneggevole, per divenire installazione spaziale, quasi a mettere alla prova, come altre forme d’arte in quel periodo, i limiti architettonici degli spazi espositivi tradizionali.

Nel corso della propria carriera Burkhard si dedica a più riprese al ritratto. Se negli anni di lavoro come fotocronista l’obiettivo è rivolto agli artisti impegnati nella creazione delle proprie opere, in seguito predilige i soggetti in posa, sia che si tratti di persone, sia che rivolga l’obiettivo agli animali tema, a metà degli anni Novanta, di una straordinaria serie in cui rivive l’approccio catalogatorio della fotografia ottocentesca. Fra la metà degli anni Novanta e l’inizio nel nuovo millennio Burkhard si cimenta in fotografie di paesaggi urbani e naturali, riprodotti in grande formato e caratterizzati dal bianco e nero vellutato che è la cifra di gran parte della sua opera. Attraverso le proprie fotografie Burkhard sembra cercare una formula in cui racchiudere tutte le manifestazioni sia umane che naturali: le rocce e le onde assumono connotazioni sensuali, nei deserti si riconoscono regolarità architettoniche; le riprese aeree di megalopoli – Tokyo, Chicago, Città del Messico – conferiscono alle città l’aspetto di organismi che si estendono a perdita d’occhio. La dimensione delle immagini ne sottolinea il significato emotivo anziché documentario, mentre il bianco e nero dai toni sfumati dona ad esse carattere quasi tattile. Non siamo dunque di fronte a semplici immagini, ma a una concezione della fotografia totalmente nuova che trova nei grandi e versatili spazi del MASI il proprio contesto ideale.

 





 

(22 giugno 2018)

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