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A Vigevano c’è enfasi per la “rete civica per la sicurezza” che civica non è 

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di Lonsito De Toledo 

A Vigevano si annuncia con enfasi la nascita di una “rete civica per la sicurezza”. L’iniziativa viene presentata come un esperimento innovativo di partecipazione, al di fuori delle logiche di partito e con l’obiettivo di mettere al centro le esigenze dei cittadini. Una bella promessa, sulla carta. Ma dietro l’etichetta di “civico”, che oggi è parola magica e rassicurante, emergono contraddizioni che meritano di essere analizzate con attenzione.

Il progetto viene dichiarato apolitico, ma è promosso da un’esponente di Forza Italia, Helena Bologna. Non si tratta di un dettaglio secondario: l’origine politica imprime sempre una direzione, anche quando si tenta di mascherarla sotto la veste neutrale della “rete civica”. In altre parole, si vuole rassicurare l’opinione pubblica dicendo “non è una questione di partiti”, mentre in realtà il punto di partenza è chiaramente legato a un partito preciso. Si tratta di una tipica operazione di linguaggio politico: cambiare il nome alle cose per renderle più digeribili. La sicurezza smette così di essere un tema di dibattito, diventa un terreno apparentemente condiviso, ma con regole stabilite da chi lo ha messo in campo.

Il termine “rete civica” evoca immediatamente immagini positive: cittadini che si organizzano spontaneamente, comunità che si riuniscono per il bene comune, quartieri che collaborano. Ma la realtà di questa proposta è diversa: non si tratta di un movimento nato dal basso, bensì di un progetto costruito dall’alto e affidato alla regia politica. In questo modo, il rischio concreto è che la partecipazione venga sostituita da una forma di controllo sociale mascherato.

Le segnalazioni dei cittadini — cuore della proposta — potrebbero diventare strumenti di delazione, più che di costruzione comunitaria. Senza regole chiare, la rete rischia di degenerare in una caccia al “diverso” o al “sospetto”, alimentando tensioni tra vicini e producendo una società in cui ciascuno osserva e giudica l’altro, invece di cooperare. Non sarebbe la prima volta: esperienze simili, in altre città italiane, hanno mostrato come i cosiddetti “gruppi di controllo di vicinato” possano scivolare verso atteggiamenti di esclusione e stigmatizzazione, soprattutto nei confronti di minoranze o di chi non rientra nella norma dominante.

La proposta prende origine dal tema della sicurezza percepita dalle donne, un argomento serio e reale, troppo spesso sottovalutato. Tuttavia, il modo in cui viene trattato rischia di trasformare un problema concreto in un’arma retorica. La “sicurezza percepita” è, per definizione, soggettiva. Non coincide con dati oggettivi su criminalità o degrado urbano, ma con sensazioni individuali che possono essere amplificate dai media o dal clima politico.

Costruire una rete sulla base della percezione, senza un solido ancoraggio a dati e analisi, significa rischiare di alimentare paure collettive. Interi quartieri potrebbero venire etichettati come “pericolosi” solo perché percepiti tali, senza che vi siano riscontri statistici. Persone e comunità intere potrebbero essere colpite da stigma e sospetto. È un cortocircuito pericoloso: la paura diventa realtà, e la realtà viene modellata in funzione della paura.

Un altro nodo critico è la mancanza di chiarezza su come la rete funzionerà davvero. Come verranno raccolte le segnalazioni? Chi le gestirà? Ci saranno risposte concrete, verificabili e pubbliche? O il tutto si limiterà a un archivio di lamentele, utile solo a chi vuole mostrare di “aver fatto qualcosa”?

Il rischio è che la rete diventi un simulacro di partecipazione: i cittadini segnalano, i politici ascoltano “a parole”, ma sul piano pratico nulla cambia. Peggio ancora, le segnalazioni potrebbero essere usate come strumento di propaganda, per dimostrare che “la città ha paura” e che servono misure speciali, magari proprio quelle proposte dagli stessi promotori politici della rete. Senza strumenti di trasparenza — come una mappa aggiornata delle segnalazioni, dei report periodici e la possibilità di verificare le risposte — la rete rimarrà opaca, più utile a consolidare consenso che a risolvere problemi.

Esiste una differenza sostanziale tra ciò che viene proposto e ciò che significa, davvero, “rete civica”. Una rete autenticamente civica nasce dal basso, dai cittadini stessi, dalle associazioni, dai comitati spontanei. È pluralista per natura, indipendente dai partiti, costruita su fiducia e reciprocità. Funziona quando i quartieri sono protagonisti, non quando qualcuno propone dall’alto una struttura pronta, da riempire con segnalazioni.

In questo senso, la proposta presentata a Vigevano rischia di essere l’ennesimo tentativo di vestire un progetto politico con abiti civici, per renderlo più presentabile e inclusivo. Ma la sostanza resta: non si tratta di un’iniziativa nata dalla comunità, bensì di un dispositivo pensato in un contesto politico e offerto come “servizio civico”.

La nuova rete civica per la sicurezza rischia di essere molto meno “civica” di quanto il nome lasci intendere. È giusto e necessario affrontare il tema della sicurezza, soprattutto quando riguarda le donne e i soggetti più vulnerabili. Ma farlo in modo superficiale, cavalcando la percezione invece della realtà, o presentando come “neutrale” ciò che nasce già politicizzato, è una scorciatoia pericolosa.

Una rete vera e utile dovrebbe essere costruita sulla trasparenza, sulla pluralità e sull’indipendenza dai partiti. Altrimenti, più che una rete, rischia di diventare una trappola: quella di una partecipazione apparente che, invece di unire la comunità, la divide e la mette sotto sorveglianza.

 

 

(18 agosto 2025)

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