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“Mario Giacomelli. Il fotografo e il poeta”, la mostra allestita tra gli stucchi e le penombre di Palazzo Reale a Milano

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di Effegi

La mostra “Mario Giacomelli. Il fotografo e il poeta”, allestita tra gli stucchi e le penombre di Palazzo Reale a Milano, non si propone solo come celebrazione di un grande maestro del Novecento, ma si configura come un’esperienza ontologica, una meditazione sulla natura stessa dell’immagine, del tempo, della memoria. È un viaggio che chiama in causa la percezione, ma anche l’immaginazione, la pietà, l’angoscia e la speranza. Ed è nel cuore di questo labirinto interiore che l’opera di Mario Giacomelli si svela come un atto di poesia visiva, un linguaggio della soglia, sospeso tra la presenza e l’assenza, tra l’istante e l’eternità.

La fotografia, per Giacomelli, non è mai uno strumento di documentazione neutra. Non è mai nemmeno uno sguardo oggettivo. Al contrario, è una forma di coscienza incarnata, una voce che interroga l’invisibile, che lo costringe a manifestarsi sotto forma di paesaggio, di corpo, di polvere. La macchina fotografica diventa così un’estensione dell’anima, un organo sensibile che ascolta i silenzi del mondo e li traduce in luce e ombra. In questo senso, la fotografia non si limita a catturare ciò che accade, ma lo trasfigura, lo elegge a simbolo, lo riconduce a una dimensione archetipica. E questa operazione di scavo, di ritorno all’essenziale, è profondamente poetica, perché implica una lotta contro la banalità del visibile, un rifiuto della superficie.

Giacomelli non insegue il bello: scava nel brutto, nel marginale, nel deteriorato. I suoi soggetti non sono mai “nobili” nel senso canonico: sono vecchi morenti, preti incanutiti, contadini curvi, ragazzi smarriti, campi solcati da aratri invisibili. E tuttavia, in ognuna di queste immagini si apre un varco verso l’assoluto. È come se, nell’apparente umiltà del soggetto, si nascondesse una domanda radicale sul destino umano. I suoi scatti non sono mai indifferenti: sono ferite, aperture, brecce che ci invitano a guardare oltre, a sentire di più, a non accontentarci della superficie.

Le sue celebri serie – Io non ho mani che mi accarezzino il voltoScannoLa buona terraVerrà la morte e avrà i tuoi occhi – non sono semplici progetti fotografici. Sono cicli mitici, veri e propri poemetti visivi in cui ogni immagine è un verso, e ogni verso è un’esplorazione del dolore, del desiderio, dell’assenza, della nostalgia. Giacomelli non illustra mai la poesia: la reinventa. Non cerca corrispondenze estetiche tra testo e immagine, ma una vibrazione comune, una consonanza misteriosa che unisce la parola alla luce, il ritmo dei versi al ritmo delle ombre.

Nella serie dedicata ai seminaristi, ad esempio, il movimento dei corpi in abito talare – ripresi mentre corrono, giocano, inciampano nel bianco accecante della neve – non è solo una scena della vita religiosa, ma un’allegoria della grazia e del suo smarrimento. I corpi si fanno segni, come lettere di un alfabeto perduto, che invocano un Dio assente, o forse un padre mai conosciuto. Non si tratta solo di religione, ma di una tensione esistenziale, di una fame d’assoluto che attraversa tutta l’opera dell’autore.

E che dire dei paesaggi? I campi marchigiani arati come se fossero pagine graffiate, i cieli plumbei, le strade dissestate che non conducono mai a una meta, ma si avvitano su se stesse in un eterno ritorno. La terra di Giacomelli non è mai decorativa: è tormentata, scavata, talvolta violata da segni che ricordano i solchi della memoria o le vene di un corpo vivo. Il paesaggio diventa organismo, materia vivente, specchio del mondo interiore. Non c’è separazione tra natura e biografia: tutto è autobiografia, tutto è impronta dell’anima.

In tutta questa visione si innesta la poesia. Non solo come fonte d’ispirazione – benché Giacomelli abbia dialogato a lungo con i versi di Turoldo, Montale, Ungaretti – ma come modalità del pensiero. Giacomelli pensa poeticamente. Ogni sua fotografia è una metafora incarnata, una sineddoche del reale. Nulla è ciò che appare: ogni volto contiene altri volti, ogni gesto contiene un’infanzia, ogni ruga un abisso. La luce non rivela: vela. La fotografia non mostra, ma trattiene, sospende, allude.

Il tempo, in questo universo poetico, si deforma. Le immagini non raccontano una sequenza, ma un tempo interiore, ciclico, a volte immobile. Il tempo fotografico non è mai cronologico: è tempo della memoria, del sogno, dell’epifania. Gli anziani fotografati da Giacomelli sembrano antichi come le pietre, eppure sempre prossimi alla sparizione. I giovani sono ambigui, fragili, già ombre. Nessuno è mai interamente presente, come se la vita stessa – nella sua essenza più nuda – fosse sempre in bilico tra comparsa e dissoluzione. Questo sentimento della transitorietà è il nucleo spirituale dell’opera di Giacomelli: il suo “tema” più profondo, più necessario.

In mostra, si percepisce con forza anche la fisicità del processo fotografico. Le stampe, spesso segnate, bruciate, graffiate, riportano le tracce di una lotta. Giacomelli non è un fotografo “pulito”, non cerca l’equilibrio formale o la perfezione della composizione. Le sue immagini sono materiche, vive, imperfette. Sono ferite aperte che ci interpellano. Anche in questo senso, la fotografia si avvicina alla poesia: come la parola poetica, anche l’immagine giacomelliana ha bisogno dell’incompiuto, dello sbilanciato, del vuoto.

E infine, c’è la solitudine. Una solitudine che non è isolamento, ma spazio di ascolto. Giacomelli fotografa da solo, cammina da solo, attende da solo. Ma non per narcisismo o misantropia: piuttosto, perché la solitudine è la condizione della visione profonda. È nella solitudine che l’immagine si fa rivelazione, che il mondo cessa di essere oggetto e diventa interlocutore. La fotografia, per Giacomelli, è un dialogo muto con ciò che non può parlare, ma chiede di essere ascoltato. Come la poesia, che nasce nel silenzio e torna al silenzio, ogni sua immagine è una forma di ascolto, un atto d’amore, un rischio.

In questo senso, l’intera mostra non si limita a presentare un’opera: la trasforma in un’esperienza conoscitiva, quasi iniziatica. Attraverso le immagini di Giacomelli, lo spettatore è chiamato a rivedere il mondo – e se stesso – da una prospettiva più profonda, più vera, più inquieta. Non si esce da questa esposizione con delle risposte, ma con nuove domande. E forse è proprio questo che l’arte autentica dovrebbe fare: non consolare, ma svegliare. Non decorare, ma ferire.

Mario Giacomelli, il poeta delle ombre e dei bianchi incerti, ci consegna ancora una volta la sua visione dell’umano come mistero irriducibile. Una visione ruvida, dolente, ma intrisa di compassione. Una visione che, come tutta la vera poesia, ci chiede di cambiare sguardo. E forse, di cambiare vita.

 

 

(26 maggio 2025)

©gaiaitalia.com 2025 – diritti riservati, riproduzione vietata

 

 





 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



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