di Giancarlo Grassi, #Lopinione
Dirette fiume de La7 a parte, i giornaloni, telegiornaloni e giornalistoni hanno abbondantemente superato loro stessi scivolando molto al di là del confine che separa l’informazione dalla commedia. E’ successo durante e subito dopo la conferenza stampa di Mario Draghi del 20 marzo, che subito è stata tradotta ad uso imbecilli all’ascolto dai vari Dottori dell’italica informazione.
I commenti si sono sprecati. “Draghi sa parlare”, è quello che ricorderemo per sempre. Rabbrividente, nella sua spaventosa arroganza. E poi i famosi e consueti “ha voluto dire”, “voleva dire che…”, all’interno dei quali ha brillato la consueta arguzia di Marco Travaglio – credetemi, non lo scrivo volentieri – che con l’abituale sardonico sorriso ha sottolineato l’inutilità del commentare l’arte oratoria di Mario Draghi.
Noi, che siamo un giornaletto a confronto con le macchine da guerra di cui sopra, abbiamo visto un presidente del Consiglio rispondere a tono, guardando direttamente in faccia l’interlocutore, con toni di leggerissima ironia di quella della quale ti accorgi il giorno dopo, volando alto sulle provocazioni di certi giornalistoni da giornaloni che volevano che Draghi avvallasse la loro idea di complotto. Perché importa ciò che penso di dire, non ciò che dico sul serio.
Abbiamo quindi assistito all’ennesima prova di provincialismo classista del mondo dell’informazione, di certo mondo dell’informazione, così impegnato a tradurre simultaneamente ciò che il potente di turno dice, così che essi dotati del divino verbo possano tradurlo per il popolo bue, da dimenticarsi che delle traduzioni libere di ciò che dice il potente di turno gli italiani non ne possono più.
Per chiudere la questione, e smettere di parlare a vanvera del “Draghi che sa parlare” sarebbe bastato soffermarsi sul suo “No. Non è finita. Restano ancora due domande” con cui ha liquidato chi dava per chiusa la conferenza stampa. Perché ci vuole stile. Sempre.
(20 marzo 2021)
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