di Samuele Vegna
Bisogna affrontare la realtà e bisogna piangere il proprio dolore. Il dolore può arrivare anche da fuori, perché alla fine, direttamente o indirettamente, ci sentiamo e siamo responsabili di ogni sofferenza, che avvenga a Gaza con 300mila morti, che avvenga in Iran o negli Stati Uniti o in Russia, o che avvenga sotto i nostri occhi accecati da priorità quali le guerre e i riarmi, occhi e cuori distanti dalle fragilità di chi non sembra far parte dell’insieme ma che è una lettera o una targa, che poi si trasforma in una gelida lapide.
Noi viviamo in un paese che col miracolo del neorealismo cinematografico si è estremamente rivalutato, ma in quanto Paese, rimaniamo con la faccia che avevamo cent’anni fa: immobili; in una cultura che si è fermata dopo aver ottenuto ben pochi diritti, e con un movimento intellettuale diviso in targhe, di destra, di sinistra, di L, G, B , T , Q.
L’unità a sinistra non renderebbe il pensiero piatto ma porterebbe un dibattito paritario con una destra che sta regnando e che detta legge, e che porta la gente a distruggere le vite di chi, magari, è un po’ più sensibile, un po’ più fragile, un po’ più solə.
Alexandra Garufi era una ragazza che aveva iniziato una transizione per avere il corpo di una donna, faceva qualche video allegro su tiktok, viveva a Sesto San Giovanni, ma era spesso violentata dalla vile cultura patriarcale, machista e di bullismo della quale siamo tuttə intrisə: nessuno le risparmiava degli insulti, nessuno le ha risparmiato nemmeno dopo la sua morte, c’è stato anche chi, tra i commenti, ha dubitato che fosse tutta una montatura per diventare famosa.
Chi si spara un colpo in testa nella sua cameretta a ventun’anni per diventare famoso?
L’altro metodo d’insulto è il più classico del giornalismo malato italiano: il suo nome sui titoli, non il nome scelto da lei, ma il nome dato a lui alla nascita. L’ultima, sacra, violenza mediatica, che anche quando si ha la libertà di scrivere, pare che non si eserciti quella di pensare.
Il nostro immobilismo e le nostre divisioni interne, come mi è stato fatto notare da un mio follower che ha cominciato il suo percorso di transizione, non ci portano da nessuna parte, e le nostre associazioni, che sono più multinazionali che ONG o non-profit, badano al lucro e a interessi settoriali e non più generali e diffusi come accadeva dieci anni fa.
Per citare un collega scrittore, noi siamo fermi a prendere il caffè sulle unioni civili, sulle briciole ottenute, da anni, e le nostre lotte si sono fermate lì.
La nostra cultura ha perso grinta : farà strano, ma in un articolo che parla di morte, voglio anche parlare di gioia. Manca la scena ballroom di Paris is Burning, poi ripresa da Pose, manca la nostra forte xtravaganza connessa però a un luogo sicuro e protetto dove esprimerci, e non nascosto, ma senza paura. Il nostro ruolo culturale è svanito nel nulla, o quasi e non è soltanto un peccato.
È una tragedia che continua, anche se io spero che Alexandra non sia l’ennesima vittima, ma sia l’ultima.
Alexandra, che tu sia l’ultima vittima del bullismo, dell’odio, di chi usa i social come se attraversasse un luogo in un suv dai vetri oscurati senza accorgersi che c’è una persona dietro quel profilo, con una sua storia e con le sue croci pesanti, e che tu sia l’ultima vittima uccisa anche dall’immobilismo della nostra comunità, da un immobilismo anche mio. Mai più dannazione, mai più.
So che sogno, so che viviamo e vivremo tempi oscuri, ma i sogni possono portare ad azioni concrete. Noi dobbiamo combattere unitə senza sigle e senza indugi per noi, fratelli e sorelle d’italia, e per i nostri fratelli e sorelle ungheresi, russi, statunitensi, arabi.
Dobbiamo pronunciare parole di rivolta per la nostra libertà e come già scrivevo qui, un diritto non può essere di destra o di sinistra.
Il 29 marzo ci vediamo al Circolo Mario Mieli, per parlare di tutto questo, e anche di più.
(24 marzo 2025)
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